Giulio Quintavalli, uno degli autori degli articoli curati dall’Ufficio Storico della Polizia, ci racconta il suo primo libro

A cura della Redazione

(Fiamme d'Oro, n° 2 /2017)

  

Da sbirro a investigatore, un libro per comprendere la moderna Polizia italiana

 

L’INTERVISTA

 I lettori di Fiamme d’Oro sono abituati a leggere il nome di Giulio Quintavalli tra gli autori degli articoli realizzati dall’Ufficio Storico della Polizia di Stato per la nostra rivista.

È una collaborazione fruttuosa quella con l’Ufficio, guidato dal Direttore Raffaele Camposano, e con gli autori Quintavalli, Gay e Ruffini, iniziata diversi anni fa e caratterizzata da analisi storiche e chiavi di lettura su vicende poco conosciute, attraverso la lente d’ingrandimento dell’analisi storica e storiografica.

 

È appeno stato pubblicato il libro Da sbirro a investigatore. Polizia e investigazione dall’Italia liberale alla Grande guerra (vedi recensione e informazioni a pag. 64), scritto dal Commissario Quintavalli; abbiamo intervistato l’autore per conoscere l’opera e per comprendere, di riflesso, la metodologia lavorativa utilizzata dai professionisti della storia.

 

Giulio Quintavalli, come nasce questo libro?

L’opera prende spunto dalla mia tesi di laurea magistrale in Storia contemporanea sulla cultura professionale e la mentalità dell’investigatore, integrata e trasformata in pubblicazione.

 

Tento di individuare il processo per il quale la professione del poliziotto diventa socialmente apprezzata, cioè quando lo sbirro, spesso analfabeta, manesco, ottuso e incapace, superata la cultura del sospetto e della prevaricazione, abbraccia quella dell’indagine sostenuta dalla scienza e dalla tecnica per trasformarsi, appunto, in investigatore, come il detective inglese.

 

Un salto in avanti che ne “riscrive” mentalità, strategie, motivazioni, valori, capacità e fiducia in sé stesso. Il titolo della pubblicazione, Da sbirro a investigatore, sintetizza questa trasformazione, che è avvenuta dopo la Grande guerra.

 

Infatti, nell’agosto 1919 il “nuovo” poliziotto del Corpo d’investigazione, Corpo di Polizia voluto da Nitti e fortemente sostenuto dal professor Salvatore Ottolenghi, padre della polizia scientifica, intraprende il cammino per rendere la Polizia un efficace e moderno organo di difesa sociale; un Corpo innovativo, di sole due qualifiche (ispettore, agente), civile, senza uniforme, ma dalla breve vita perché soppresso, anzi trasformato nel 1922. Ma questa è un’altra storia.

 

Quali sono gli aspetti evidenziati nell’opera?

Non ho considerato i poliziotti famosi e la letteratura d’evasione (gialli, polizieschi) per dare parola alle fonti dell’epoca.

 

Ho tentato di tratteggiare le varie componenti della Polizia, uomini e saperi, tra la fine ’800 e il Dopoguerra. Funzionari e guardie di vari gradi, diversissimi per istruzione, cultura,  responsabilità, ma uniti nel servizio e nell‘urgenza di nuovi metodi di indagine.

 

Ho individuato continuità e mutamenti nelle loro memorie, incarichi, professionalità, a partire dai rispettivi programmi e testi delle Scuole, un “termometro” per cercare trasformazioni e progressi.

 

Nei primi del ’900, nei testi utilizzati per la formazione di tutti i ranghi della Polizia, emerge la fiducia nella scienza e nelle nuove pratiche di polizia scientifica, la razionalizzazione delle pratiche codificate (sopraluoghi, intercettazioni, verbali, etc.) e non (travestimenti, pedinamenti, appostamenti). In pratica, il vento rinnovatore di Ottolenghi dilata gli orizzonti professionali del poliziotto, a partire dai servizi investigativi. Servizi che descrivo con particolare attenzione partendo “dal basso”, dalle guardie, perché la “squadra Polizia”, è costituita da validi funzionari e da validissimi agenti.

 

Come è stata condotta la ricerca?

Ho articolato la ricerca in quattro capitoli.

 

Il primo, prende in considerazione il periodo che va dall’inizio dell’800 al 1897, quando vengono avviati i primi tentativi di realizzare in Italia una figura analoga al detective anglosassone (la guardia investigatrice di polizia giudiziaria), e ne descrivo i metodi di indagine, antiquati e insufficienti.

 

Il secondo si spinge fino al 1915, con la polizia scientifica e le prime iniziative per professionalizzare il poliziotto.

 

Il terzo capitolo tratteggia l’impegno della Polizia nella Grande guerra per la tenuta del fronte interno: caccia alle spie, disertori, contrasto ai reati di guerra, difesa della produzione di beni strategici, lotta alla criminalità nel Meridione.

 

Concludo con il quarto capitolo, dove affronto il Dopoguerra e il governo che riforma la Polizia “riscrivendone” metodi, personale e professionalità.

 

A chi è rivolto questo libro?

Il lettore vorrà perdonare l’ardire, ma credo che questo libro, che si legge come un romanzo e odora di bombetta, revolver, bastone  animato e catenelle, può arricchire la nostra cultura professionale, il rispetto e il senso di appartenenza per la Polizia. Di ieri, ma anche di oggi.

 

Credo di aver affrontato un importante impegno nella ricerca e nella scrittura del testo, testimoniata  oltreché dal riconoscimento universitario, dalla prefazione del direttore dell’Ufficio Storico, Primo dirigente Raffaele Camposano, che desidero ringraziare anche in queste righe.

 

La scrittura storica è un’affascinante avventura intellettuale; questo libro tratteggia quattro decenni della storia della Polizia, soffermandosi sugli elementi immateriali (cultura e mentalità) e rispondendo contemporaneamente a tante curiosità del nostro lavoro.