La cosa che più mi fa ridere, e nel contempo arrabbiare, delle case editrici, è che sono tutte dotate di un pomposo comitato scientifico: che non serve a niente.

 

La Storia è in qualche misura la storia di chi la scrive: è la verità su cui finiscono, dopo un penoso pellegrinaggio tra i luoghi comuni e le frasi fatte, tutti coloro che si sono sporcati il vestito della polvere degli archivi. Ogni singolo documento può essere (per usare la vecchia segnaletica del secolo scorso) di sinistra, di destra o di centro, a seconda della direzione da dove riceve la luce.    

 

Può pure succedere che lo studioso spregiudicato lo ignori: se disturba la sua tesi, che é sempre, per forza di cose, un sistema di preconcetti. Oppure - è un'orribile possibilità - lo infila per errore nel faldone sbagliato, che equivale a toglierlo di mezzo per sempre.

 

E chi s'è visto, s'è visto.

 

Ma il libro di Giulio Quintavalli, che focalizza sugli sviluppi dell'attività investigativa della P.S. nel periodo compreso tra l'Italietta liberale e l'annunciazione del fascismo, sebbene abbia, da questo particolare punto di vista, un'integrità quasi claustrale, costituisce il classico esempio di come tutte le storie ne hanno mille altre dentro, e che per gli approfondimenti bisognerebbe poter vivere mille anni, riservando solo il tempo strettamente necessario alle funzioni essenziali, ammesso che ne rimanga.

Il centro della scena illuminata da Quintavalli è scontatamente la Grande Guerra.

 

Il fragore delle bombe che devastano le trincee qui non c'è. Si sente piuttosto il rumore lieve della mano che tamburella sul tavolo, e dell'altra mano che gira lentamente le pagine di un rapporto.

 

Il palcoscenico è una piccola scrivania, collocata in una piccola stanza. La dimensione del contesto nel quale lampeggiano questi flashes corrisponde, però, a quello dell'UCI (Ufficio Centrale di Investigazione), la struttura creata per fronteggiare i pericoli che si addensavano alle spalle dei nostri soldati al fronte: una struttura poderosa, capillare, silente, ai vertici della quale il Governo aveva messo un superpoliziotto di nome Giovanni Gasti: mai sentito, da quasi tutto l'inclito e da tutta l'estensione del volgo.

 

Eppure, al di là della fredda contabilità che scarnifica la Storia e le storie, a dispetto delle più generose intenzioni, c'è un mondo pieno di racconti ancora tutti da raccontare, che Quintavalli conosce benissimo, per esservici immerso per mesi, e che parla di due corazzate italiane perse per tradimento, di intrighi sotterranei, di palazzi frequentati da gente loffia, di sottane che svolazzano come pipistrelli dalle parti di Borgo.

 

Ecco: qui, per ragioni che non è difficile comprendere, perché lo scopo del libro è quello di illustrare la metamorfosi da 'sbirro' a detective, e non già quello di proporre delle pruriginose dietrologie, Giulio Quintavalli giustamente segna il passo prima di fermarsi.

 

E' il punto in cui le acque stagnanti della Non-Ricerca imposta dalla retorica e dal conformismo incontrano quelle contaminate dal ripudio di una guerra che ha ancora, a distanza di cento anni, per certa gente, un difetto imperdonabile: l'averla vinta.

 Franco Scalzo

Giornalista e ricercatore storico, Scalzo è autore di: Ecce Moro. Fatti e misfatti di un'inchiesta, Settimo Sigillo, 2014; Il Caso Matteotti, Radiografia di un falso storico, Settimo Sigillo, 1997; Due navi, il re, il papa e i fratelli Roselli, Settimo Sigillo, 2003; Il Delitto Matteotti. Una trappola per il Duce,  Herald Editore, 2020.