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L’identificazione di polizia, la recidiva e le sue problematiche

(Giulio Quintavalli)

 

Nel sistema penale italiano l’istituto della recidiva (ovvero la peculiare situazione del soggetto che – dopo essere stato condannato per un reato – ricade nel delitto), si deve sia al maggior disvalore insito nel reato del recidivo, legato a una maggiore colpevolezza di quest’ultimo, sia al valore prognostico del precedente reato, idoneo a fondare una valutazione di pericolosità sociale nei confronti del reo.

 

Valutazioni che convergono nella considerazione che la ricaduta nel reato sia segno della qualità, personalità e carattere del reo, rendendosi pertanto l'autore meritevole di un inasprimento di pena, intesa come intensità e durata.

 

Queste, in estrema sintesi, erano le ricorrenti considerazioni nel periodo storico in cui fu approvato il Codice Zanardelli.

 

Entrato in vigore il 1º gennaio 1890 (approvato il 30 giugno precedente), il Codice Zanardelli sostituì il codice penale del 1865, già in vigore nel Regno di Sardegna del 1859 ed esteso (con qualche modifica e in distinti momenti) all’intero territorio del Regno d’Italia.

 

Il Primo libro del Codice definisce le regole generali di punizione dei delinquenti; dei nove titoli che lo compongono, il primo è dedicato alla recidiva (art. 80 e ss.), e alle relative conseguenze sia nella determinazione sia nell’esecuzione della pena.

I primi identikit

 

La recidiva soggiace a una condizione fattuale: la concreta possibilità di stabilire con certezza l’identità dell'individuo, nel senso di poter realmente accertare se egli avesse o meno precedentemente riportata una condanna e, segnatamente, in quale momento per quale reato.

 

Accertamento a carico degli organi investigativi e di giustizia che dovevano bypassare una prassi sovente tra i criminali che, volendo gabbare la macchina della legge e l’inasprimento della pena per i recidivi, celavano la propria identità sia attribuendosene un’altra fittizia o altrui, sia rilasciando informazioni sulla propria persona (luogo e data di nascita, residenza, domicilio, professione ...) imprecise o false.

 

Per ovviare a tale inconveniente nella seconda metà dell’Ottocento gli uffici giudiziari d’Italia assunsero la pressi di annotare, a margine delle sentenze di condanna, i connotati salienti del giudicato; in pratica la stessa metodologia prevista per le anagrafi comunali alle prese con il rilascio di documenti di identità.

 

Documenti che, essendo privi di fotografia, si limitavano a “descrivere” dell’interessato i caratteri salienti (altezza, corporatura, colorito, forma del viso, colore degli occhi, forma del naso …) con eventuali contrassegni più visibili.

 

Balza anche agli occhi dei profani della materia che una siffatta metodologia fosse tutt’altro che efficace per più ragioni, e parzialmente affidabile nel caso in cui l'individuo presentasse segni visibili e univoci, come deformazioni del corpo, strabismo, gobba, cicatrici, tatuaggi …

 

Inoltre, gli impiegati delle varie anagrafi comunali non adottavano termini uguali per descrivere caratteristiche analoghe tra diversi individui, ovvero non utilizzavano il corrispondente gruppo di termini propri di un linguaggio specialistico, con la conseguenza che lo stesso individuo potesse essere descritto differentemente a svantaggio dell'affidabilità del documento esibito e dell’accertamento della propria identità da parte dell'organo accertatore. 

 

Per ovviare a queste problematiche e accertare senza margini di errore l’identità del reo – anche ai fini della recidiva – il tribunale doveva affidarsi a metodi empirici affatto precisi, escogitati di volta in volta, caso per caso (leggi tutto l'articolo)