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L’identificazione di polizia: le indagini, la nascita del segnalamento e altre tecniche investigative

(Giulio Quintavalli)

 

Alphonse Bertillon, figlio di un antropologo, era certo che i procedimenti dell’anatomia antropologica potessero risolvere la faccenda che stava animando scienziati e ricercatori da decenni e che -  come già indicato nel precedente articolo - subordinava l’applicazione concreta delle conseguenze stabilite dalla recidiva nei confronti del criminale (aggravio di pena …) alla fortuna degli investigatori (o, guardandola da un’opposta prospettiva, alla sfortuna del criminale).

 

Infatti, ogni volta che un malcapitato veniva pizzicato dalla polizia, la prima domanda a cui doveva rispondere agli agenti era: «Generalità? Documenti?».

 

Rispondere apriva un palcoscenico di possibilità orientate a due atteggiamenti opposti: collaborare con la legge spifferando i propri “fatti” ai solerti agenti oppure tenere ben cucita la bocca anche a costo di qualche sonoro sganassone?

 

Come a dire: guadagnare un atteggiamento più favorevole della polizia rispondendo a quel fiume di domande a cui sarebbe inevitabilmente andato incontro («Dove avresti portato la refurtiva? I tuoi complici? Chi ti ha dato il grimaldello? Quanti colpi hai già messo a segno? ...» oppure sfidando la stessa come un provetto criminale incurante della gattabuia, di pane e acqua meritandosi però i galloni di “duro” negli ambienti del crimine?

 

A ben vedere una scelta precipitato della difficoltà della polizia di entrare nel mondo del crimine, di accertare l'identità del balordo di turno incappato nelle sue maglie, in breve di essere un organo efficiente dello stato.

 

Anche per tale ragione la polizia poteva trattenere in cella l’arrestato per ragioni di identificazione per molti giorni, tanti quanti ne avrebbe passati il solerte Bertillon nel freddo sottotetto della Prefettura di Polizia di Parigi per confrontare la fotografia dell’arrestato con lo schedario fotografico al quale egli era addetto.

Diversamente, potendo la polizia stabilire con certezza l’identità dell’arrestato (e gli eventuali precedenti inciampi giudiziari e di pubblica sicurezza), egli avrebbe avuto più motivi per collaborare con gli agenti e la macchina della legge avrebbe, finalmente, ingranato una nuova marcia.

 

Questione, quella dell’identità personale, a noi ovvia, però frutto di lunghi studi e ricerche dei quali – per riprendere il filo del discorso – Bertillon è tra i protagonisti.

 

Se non altro per diminuire le ore che passava imbacuccato in quel sottotetto.

 

Infatti, il segnalamento fotografico-descrittivo (come visto nel precedente contributo, nato a Londra negli anni Settanta dell’Ottocento), oltre a essere particolarmente farraginoso, richiedeva fotografie sufficientemente recenti, ma ciò non poteva bastare.

 

Infatti, i criminali adottavano numerosi espedienti di dissimulazione e camuffamento (tintura e taglio di capelli, barbe e baffi - anche finti -, idioma linguistico alterato …), ostacolo di non poco conto per l’effettiva utilità dello scatto fotografico fatto con i ferri ai polsi. Scatto che, ricordiamolo, soggiaceva nell'affidabilità all’ineluttabile marciare degli anni del soggetto ripreso.

 

A questo si aggiungeva una questione archivistica: stabilire criteri certi e univoci di classificazione e collocazione della documentazione raccolta sulla base della fotografia (peraltro in bianco e nero) e della descrizione dell’individuo era una faccenda tutt’altro che semplice, mentre il rischio di accrescere con sempre nuove schedature un archivio già difficilmente consultabile per consistenza e articolazione diveniva progressivamente maggiore fino a rasentare la totale inutilità nel caso in cui l'impianto avesse raggiunto migliaia di fiches.

 

Il confronto tra le risultanze delle consultazioni di diversi archivi collocati in diverse città amplificava i problemi a tutto vantaggio dei pendolari del crimine, fenomeno in rapida espansione con lo sviluppo delle strade ferrate e delle opportunità del trasporto pubblico.

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